domenica 29 giugno 2008

Le ragioni dell'arte

Cose tanto semplici che nessuno capisce
Dialogo tra Giuseppina Cuccu e Maria Lai

VI. Cardedu 2 Gennaio 1994

G. Qual è stata la spinta più forte al tuo modo di essere artista?
M. Quando ero bambina pensavo che diventare adulta significasse perdere il diritto al gioco. Mi consolavo sperando di poter giocare di nascosto. Da adolescente, a scuola, fu Cambosu a rassicurarmi su questo diritto, anche se mi consigliava una certa prudenza nel parlarne. Cominciavo ad orientarmi su una scelta di vita che risulta inutile nell’opinione comune. Anche oggi che sono una bambina vecchissima devo continuamente esercitare la possibilità di inventare segretamente la mia vita.

G . Attraverso l’arte?
M. Il gioco è l’arte dei bambini, l’arte è il gioco degli adulti. La felicità non nasce dal sogno, ma dalla possibilità di inventare la vita nella dimensione poetica. Ci sono giochi che non portano a nulla, sono i giochi senza regole, fantasticherie. Il gioco, come l’arte, ha regole severe, è una macchina che porta lontano.

G. Se l’immaginazione è una macchina potente, il problema è come usarla.
M. Sognare è come guidare un’auto: chi non ha la patente va a sbattere. È necessario un maestro, un tempo di esercizi continui su uno strumento, insomma la conquista di una manualità, di un mestiere, una materia da elaborare con le proprie mani, il proprio sguardo, il proprio corpo. Inoltre bisogna avere una direzione, chi non sa dove andare non sa che farsene dell’auto, anche se è un bravo autista.

G. Cos’altro distingue un autista da un’artista?
M. Nell’autista c’è la sicurezza di guida. Nell’arte c’è un essere umano scombinato che si affanna a conquistare il suo talento che sembri naturale. L’artista finge di esistere in una realtà che non esiste. L’autista conosce la meta e parte su strade già tracciate. L’artista costruisce ad ogni passo la sua strada.

G. Anche l’artista, come lo spettatore, si muove alla ricerca di se stesso?
M. La meta di entrambi è raggiungere gli altri se stessi lontani e sconosciuti, una vastità che sta chiusa nel piccolo spazio della propria vita.

G. Interpretare, leggere un’opera, ha lo stesso valore che realizzarla?
M. L’opera non esisterebbe senza le interpretazioni che possono essere infinite. L’artista avvia una fecondazione, l’interprete la nutre e la porta lontano.

G. le ragioni dell’arte stanno nelle interrogazioni? Se l’arte rinasce sulle proprie radici per parlare ad ogni generazione, può succedere che intere generazioni ne ignorino l’esistenza?
M. L’arte è come una pozzanghera che riflette il cielo, ma può passare inosservata. Può essere calpestata, ma l’immagine del cielo si ricompone sempre.

Maria Lai, Tenendo per mano il sole, 1983.

La seguente immagine è tratta dal sito web www.sardegnacultura.it
Nel sito sono presenti una breve biografia dell'artista e la galleria con una piccola selezione di foto.

mercoledì 9 aprile 2008

Degli orizzonti e altri sensi

Ogni orizzonte porta un cielo e un amore.
L’atto creativo, nella sua interezza, ha la caratteristica di un luogo di ritiro che prevede tempi di lavorazione lunghi e pazienti. Sarà per il mio bisogno istintivo di distruggere e ricomporre. Di frammentare e riordinare.
Così, sono lembi della mia vita che si ricompongono. La traccia tangibile di persone e luoghi che non si lasciano più definire.
E non posso dipingere la mia malinconia perché il colore la supera e le si sovrappone.
Ci sono pittori che si sporcano e sporcano le tele di brandelli esistenziali come fossero carne e sangue.
A me piace giocare con frammenti di azzurri e rossi.
Questa è la mia grammatica.

P.

I miei orizzonti: Ho Amato (particolare) - Olio su tela.

venerdì 4 aprile 2008

Roma

Mille luci sul Tevere e la tua voce nell'aria.
Roma rallegra e intristisce. Stimola, distrae, chiarisce e illude.
Ti guardavo e mi sembrava di poter guarire la ferita che non guarisce.
Volevo sapere tutto di te. Del tuo mondo intero e di quel sorriso sulle labbra.
Ho portato mille volte le mani a nascondere il viso, per quella fatale condizione della mia natura che mi porta a vergognarmi di certe piccole cose.
Un vizio antico la mia timidezza, che a sollevare il sipario e mettersi in scena davanti ai tuoi occhi serve coraggio.
E allora si accartocciava ogni parola prima che riuscissi a dirla. Impallidivano le domande. La previsione dei tuoi pensieri tacitava la voce profonda delle mie variopinte emozioni.
Fare silenzio era più sicuro che parlare. E così ho mantenuto il distacco silenzioso di chi vuole conservare la sua leggerezza.
Invece avrei dovuto concedermi.
Buttare il mio enorme cuore fra le stelle.
Ma un giorno, giuro...

P.